Tutela donna: quando comunicare la gravidanza al datore di lavoro
Tutela donna quando comunicare la gravidanza al datore di lavoro

La nostra Costituzione, già nel suo terzo articolo, sancisce il principio di “uguaglianza di genere” riconoscendo pari dignità sociale a uomini e donne davanti alla legge e rileva, tra i compiti della Repubblica, la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini e che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.

Ma molto più incisivo nell’ambito lavorativo è l’articolo 37, secondo cui la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.

Fondamentale anche l’articolo 51 secondo cui tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.

Quella che per anni è stata solamente un’uguaglianza formale, sancita cioè esclusivamente dalla legge ma poco applicata nella realtà, pian piano sta diventando sempre più sostanziale, grazie anche a tutele crescenti riservate alla donna e madre lavoratrice.

I diritti delle mamme che lavorano sono garantiti dal Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità (D.Lgs. 151/2001), cui si aggiungono le disposizioni di nuovi decreti, finalizzati a garantire una migliore conciliazione tra vita familiare e carriera.

Il Testo unico in primis dispone il divieto di adibire le lavoratrici a lavori gravosi e insalubri e il divieto di licenziamento. È previsto inoltre che le lavoratrici, per tutto il periodo di gestazione fino ai 7 mesi dopo il parto, debbano essere esonerate dal trasporto e sollevamento di pesi, anche se questo presuppone un cambiamento di ruolo con lo stesso range retributivo.

Ancora più incisiva la norma secondo cui non è possibile licenziare la lavoratrice dall’inizio del periodo di gestazione fino al compimento di 1 anno di età del bambino, ad eccezione dei casi di: licenziamento per giusta causa, cessazione dell’attività aziendale, risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine.

La giurisprudenza comunitaria ha recentemente affermato che il divieto di licenziamento deve essere interpretato non solo nel senso che esso vieta di notificare una decisione di licenziamento giustificato in ragione dello stato di gravidanza/maternità, ma anche nel senso ulteriore di vietare di prendere decisioni preparatorie allo stesso prima della scadenza del periodo di maternità dalla legge previsto.

Lo Statuto dei Lavoratori stabilisce che il licenziamento comminato in violazione delle disposizioni legislative in materia di tutela della maternità e paternità debba essere dichiarato nullo dal giudice, che dovrà, pertanto, applicare la cd. tutela reintegratoria piena.

La lavoratrice ingiustamente licenziata dovrà quindi essere reintegrata nel posto di lavoro, potrà ottenere il risarcimento del danno per il periodo successivo al licenziamento e fino all’effettiva reintegra, dedotto quanto percepito da altra occupazione, potrà ottenere il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per tutto il periodo dal giorno del licenziamento a quello della reintegra e potrà anche esercitare il cd. diritto di opzione, ossia scegliere fra la reintegra e l’indennità sostitutiva pari a quindici mensilità della retribuzione globale di fatto.

La lavoratrice è tenuta ad informare il datore di lavoro del proprio stato di gravidanza, mediante presentazione del certificato medico.

Ma quando comunicare al datore di lavoro la gravidanza?

In realtà non c’è una regola precisa prevista dalla legge, ma probabilmente la cosa migliore è farlo al terzo mese.

Più nello specifico, la legge prevede l’obbligo per la lavoratrice madre di comunicare al datore di lavoro il proprio stato di gravidanza prima dell’inizio del congedo obbligatorio ma non dice quanto tempo prima esattamente.

Comunemente si informa dapprima verbalmente il datore e, in un secondo momento, si invia una comunicazione scritta per mezzo di  raccomandata a/r in modo da dare all’annuncio carattere ufficiale.

La Cassazione ha precisato che la lavoratrice non ha neppure il dovere di informare il datore di lavoro del proprio stato di gravidanza al momento dell’assunzione, anche se comunque è nell’interesse della lavoratrice informarlo, dato che, come abbiamo visto, se incinta non può essere adibita ad una serie di mansioni pericolose ed all’orario notturno.

Nel momento in cui la lavoratrice informa il datore di lavoro del proprio stato ha diritto a permessi retribuiti per effettuare esami prenatali e visite mediche che debbano tenersi durante l’orario di lavoro.

In conseguenza della comunicazione, la normativa prevede poi il congedo di maternità, con il quale viene fatto divieto di adibire la lavoratrice al lavoro nei due mesi precedenti la data presunta del parto, nonché nei tre mesi successivi al parto, attribuendo alla stessa il diritto a ricevere l’80% della retribuzione.

E’ ammessa anche la possibilità di fruire del congedo lasciando il lavoro solamente un mese prima della data del presunto parto, portando così il periodo di astensione dopo il parto a quattro mesi.

Il Testo Unico prevede che nel caso in cui la futura mamma opti per questa seconda opzione, l’unica condizione richiesta è che il medico specialista del Servizio sanitario nazionale (o con esso convenzionato) e il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro attestino che tale opzione non pregiudichi la salute della gestante e del nascituro.

La legge, inoltre, nel caso sussistano gravi condizioni di salute della madre, una grave infermità o, peggio, in caso di morte, prevede che il congedo, con tali caratteristiche, venga riconosciuto al padre.

Viene poi riconosciuta l’astensione obbligatoria anche alle lavoratrici dipendenti o iscritte alla gestione separata INPS in caso di interruzione spontanea o terapeutica della gravidanza successiva al 180° giorno dall’inizio della gestazione, nonché in caso di decesso del bambino alla nascita o durante il congedo di maternità. In queste circostanze, tuttavia, è riconosciuta alla lavoratrice la facoltà di rinunciare alla fruizione dell’astensione obbligatoria e riprendere in qualunque momento l’attività lavorativa.

Vi è anche un’altra importante possibilità per chi non vuole perdersi i primi mesi di vita del proprio bambino. Oltre ai cinque mesi di astensione obbligatoria, la legge italiana prevede infatti l’astensione facoltativa o congedo parentale, che consente ad entrambi i genitori di restare più a lungo con il figlio senza perdere il posto di lavoro.

Entro i primi dodici anni di vita del bambino, la mamma o il papà possono usufruire di 6-7 mesi complessivi (o 10 mesi qualora vi sia un solo genitore), percependo fino al sesto anno del bambino un’indennità dell’INPS pari al 30% della retribuzione giornaliera.

Inoltre, nel primo anno di vita del bambino, la lavoratrice può usufruire di una o due ore di riposo al giorno, godendo di permessi per allattamento retribuiti.

In sostanza, quindi, anche se molte donne temono di rimanere incinte per paura di perdere il proprio posto di lavoro, la legge offre garanzie e tutele reali per salvaguardare la libertà di scelta di ogni donna lavoratrice.

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